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Il piccolo vagabondo della luna
01-11-2004 18:30
»
Si fermò davanti al portone, avvolse la sciarpa inforno al collo, si sollevò sulla punta dei piedi e aprì le braccia come se spiegasse le ali. Poi si voltò e tornò da me correndo.
"- Esci dalla macchina - disse. - Voglio dirti una cosa.
- Sì, ometto?
- Ecco, Non te l'ho mai detto. Non l'ho mai detto a nessuno. Vorrei dirti che ti voglio bene. Vorrei dirtelo come tu lo dici ai bambini. Puoi chinarti, per piacere?... Ancora... Ancora un pochino... Ecco!""


E tracciò il segno della croce sulla mia fronte.

Labaky, M., Il piccolo vagabondo della luna, 1990.


***

Avevo 6 anni, credo, quando per la prima volta mi sono accorta dell'abitudine di mio padre: tutte le sere, mentre dormivo, entrava nella mia camera, mi tracciava una croce in fronte e restava lì, immobile, per qualche minuto. Io mi dicevo che pregava per me.
Da quella sera, restavo sveglia (non sempre, però. A volte crollavo e basta) e aspettavo.
Era un appuntamento.
E quando lo sentivo arrivare, mi irrigidivo ferma fermissima immobile sotto le coperte e stavo.
Stabat Feranz.
Mi veniva su il caldo, mi sentivo il corpo attraversato da formichine, mi veniva prurito qua e là. Ma stavo ferma fermissima immobile. Era mio padre.

Credo sia stato lì che è venuta al mondo la mia irriverente tensione verso il giocare sporco, almeno quando la posta in gioco è quella magia che ti consente di sparecchiare la quotidianità dei paradossi affettivi.

Credo anche derivi da lì il mio amore per Il piccolo vagabondo della luna.
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